La metafora delle
radici nell’identità delle nazioni
di
Matteo Di Gesù
Lo studioso
Maurizio Bettini scardina l’idea di tradizione. Nel suo libro edito per Il
Mulino, l’autore propone una inversione di tendenza sui miti fondativi delle
comuni «culture dei popoli», con illuminanti richiami ai classici.
A dispetto di
quanto è stato elaborato in un trentennio dagli studi culturali e
postcoloniali, ma anche da certa storiografia neomarxista, da molta
antropologia critica, dalla geografia postmoderna, dalla sociologia, perfino da
un diffuso – ancorché non maggioritario – senso comune democratico,
l’argomentazione ufficiale di chi vorrebbe porre rimedio alla crisi degli studi
umanistici in Italia fa sovente ancora appello alla questione identitaria. Mantenere
una prossimità ideale e una consuetudine con la classicità greca e latina e la
tradizione letteraria italiana, preservarne l’insegnamento nella scuola
dell’obbligo e nei licei, tutelarne lo studio e la ricerca nelle facoltà
umanistiche sarebbe indispensabile, se davvero si vuole conservare e tràdere,
tramandare, l’essenza più nobile e alta del nostro carattere nazionale, se si
vuole rigenerare il tessuto connettivo sfibrato e lacerato della comunità
nazionale. Com’era prevedibile, questa vulgata è stata rilanciata, non senza un
sovrappiù di enfasi retorica, in occasione della ricorrenza del
centocinquantenario dell’unificazione e all’occorrenza tirata in ballo
nell’afflato nazionalistico con cui fronteggiare l’emergenza della crisi
economica, occultando conflitti e differenze.
Contro le radici.
Tradizione, identità, memoria (Il Mulino 2012, pp. 108), scritto da uno
studioso di fama e di riconosciuto blasone accademico qual è Maurizio Bettini,
va dunque accolto come un auspicio per un’inversione di tendenza, ancorché non
si tratti di un contributo antesignano, come si diceva (anche dai classicisti,
oltretutto, sono pervenute negli anni passati interessanti riflessioni
epistemologiche: La tribù degli antichisti di Andrea Cozzo ne è una delle
migliori testimonianze); si tratta di un piccolo e prezioso pamphlet (poco più
di cento pagine) che ripropone la necessità di affrancare lo studio della
tradizione da qualsivoglia prerogativa identitaria, utilizzandola semmai come
viatico e repertorio per decodificare e smentire ogni discorso ideologico che
invochi e faccia appello a radici comuni, tradizioni condivise, presunte
culture dei popoli. Bettini tiene efficacemente insieme i riferimenti colti
alle prime attestazioni della metafora delle radici e dell’immagine verticale
dell’autorità (alto e basso), nonché alle loro durature retoriche simboliche –
dai Greci alla scuola Bosina della moglie di Bossi – , con gli opportuni
richiami all’attualità e alla storia recente (assai efficace quello a una
seconda carica della Repubblica che pochi anni or sono redigeva e declamava, in
consessi solenni, terrificanti «Appelli per l’Occidente» volti a difenderne le
tradizioni «giudaico cristiane e greco-romane» in pericolo); anche per effetto
di questo andamento divagante, i fugaci e illuminanti richiami ai classici
appaiono assai incisivi. L’autore, ad esempio, torna a ricordarci come quello
che ci è stato tramandato come un poema archetipico di un’identità millenaria,
l’Eneide, celebri piuttosto le origini meticce e «impure» del mito della
fondazione di Roma: troiani e latini si mescoleranno e daranno vita a una nuova
progenie; di più: contravvenendo alle consuetudini della Roma augustea,
Virgilio immagina che ai padri troiani venga sottratta pressoché ogni
prerogativa, per attribuirla alle madri, dalle quali i discendenti erediteranno
costumi e cultura. Del resto se ne era ricordato bene Dante, di questo
suggestivo mito fondante promiscuo e quasi creolo, quando in apertura della
Commedia fa evocare, proprio a Virgilio, Camilla, Eurialo, Turno e Niso, eroi
troiani e latini nemici e insieme fondatori dell’«umile Italia».
Proprio a
proposito della tradizione letteraria italiana, vero sterminato palinsesto
della narrazione identitaria della nazione moderna, la lettura del saggio di
Bettini torna di grande utilità: non si tratterebbe di negarne il valore
culturale costituente o di occultare l’importanza e addirittura la persistenza
di questa idea fondativa (il fatto che l’Italia sia stata, quando non era
ancora nazione e ben prima di essere uno stato, un topos letterario, un tema,
un motivo, una retorica, un’occorrenza, un’invenzione dei poeti, potrebbe
essere un lascito libertario che conserva quasi intatte le sue più lusinghiere
promesse future), quanto piuttosto di ragionare ancora su come questo
patrimonio sia stato travisato, manipolato ideologicamente, corrotto e
misinterpretato dagli usi che ne ha fatto il potere. Tenendo ben presente la
lezione di Pierre Bourdieu: «ogni potere di violenza simbolica, cioè ogni
potere che riesce ad imporre dei significati e a imporli come legittimi,
dissimulando i rapporti di forza su cui si basa la sua forza, aggiunge la
propria forza, cioè una forza specificatamente simbolica,a questi rapporti di
forza».
In altre parole,
se del costitutivo mandato identitario nazionale devoluto alla letteratura
italiana, alla sua trasmissione e soprattutto al suo insegnamento si è
abbondantemente scritto, forse non si sono ancora ponderate adeguatamente le
conseguenze che questo duraturo compito di educazione nazionale ha determinato
sulla letteratura stessa, sulla sua ricezione, sulla selezione del canone. Sarebbe
tempo di calcolare, insomma, l’entità del tributo pagato dalla nostra
tradizione letteraria per questa onerosa mansione, tra interpretazioni forzose
dei nostri classici, condizionate dalla grande narrazione’ della storia
letteraria nazionale ‘ufficiale’ (così come da una sua controversione
ugualmente istituzionalizzata: si pensi a certe letture degli autori
meridionali) e accessi ai testi inesorabilmente differiti dagli inquadramenti
storico-letterari-ministeriali.
L’indebolimento
delle prerogative pedagogico-nazionali dello studio del mondo classico, della
letteratura e in generale degli studi umanistici potrebbe offrire inoltre
un’occasione propizia per ripensare i loro statuti epistemologici, per aperture
ad approcci sovranazionali, a metodologie pluridisciplinari, a un’idea meno
ingessata e istituzionale di humanities. E per farci ricordare, una volta di
più, anche mercé il volumetto di Bettini, che quello dell’identità nazionale,
della tradizione, e della selezione della memoria collettiva non è un discorso
metastorico, neutro e assoluto, ma piuttosto storicamente e materialisticamente
determinato, parziale e conflittuale, se è vero che per ogni tradizione
ufficiale, maggioritaria e dominante, sono esistite, esistono, molteplici alterità
oppresse,minoritarie ed emarginate.
«Italia, Italia»,
invocavano stremati, avvolti nelle coperte termiche fluorescenti, i migranti
sopravvissuti a un tragico sbarco sulle coste adriatiche alcuni mesi fa. A chi
ha memoria del III canto dell’Eneide, quelle parole suonano quasi come il grido
che i compagni dell’eroe troiano, profughi anch’essi, levarono all’apparire
delle coste del Lazio, approdo agognato al termine di una drammatica
traversata: Humilemque videmus / Italiam. Italiam primus conclamat Achates; /
Italiam laeto socii clamore salutant (Aen., III, 522-524). Eccole, le nostre
radici.
(già su “Il
Manifesto” del 28 aprile 2012)
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